Joker”: un incubo psicologico e disturbato nell’era del Capitalismo.
- Roberta Mazza
- 2 nov 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 4 nov 2019
“Quand'ero un bambino e dicevo alle persone che avrei fatto il comico, tutti ridevano di me. Invece adesso nessuno ride.”
Todd Philips, regista, ci trasporta in una bolla: è una bolla laccata di solitudine, di degrado, in una città americana sporca in cui la mancanza di ascolto è all’ordine del giorno. Siamo a Gotham City, è il 1981: criminalità e menefreghismo dilagano, una sensazione costante di smarrimento e di abbandono aleggia in tutto il film. L’emergenza rifiuti e il debito pubblico sono impossibili da arginare, tanto che Gotham sta diventando una città pestilenziale e tossica. Non è un caso che il film inizi in un ambiente asettico: una stanza bianca di ospedale. La psicologa è monocorde, inespressiva, non lo ascolta. “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto, e le persone iniziano a notarlo”.
Qui conosciamo Arthur: la prima cosa che notiamo sono gli occhi tristi di Joaquin Phoenix, il suo sguardo inquieto e penetrante. “Joker” non è sicuramente un trattato di politica capitalistica, né tanto meno un pamphlet culturale, ma ha il merito di averci fatto conoscere una realtà sporca che spesso appare a noi visibile solo con un cannocchiale. Joker è disturbato e da questo disagio traiamo una meditabonda riflessione sul potere e l’onnipotenza dei media e delle istituzioni. A mio parere, è una piccola perla nascosta in un portagioie un po’ arrugginito, ma che ci aiuta a ritornare sui nostri passi. Possiamo essere deboli, diciamocelo, non siamo divinità: la condizione umana verte sul disagio. Non dobbiamo inoltre dimenticare che in America, le prestazioni mediche sono di alto livello; ciononostante è su altri fronti che il sistema sanitario americano deve essere potenziato, ad esempio intervenendo sull’accesso alle cure. Secondo il rapporto economico 2008 del Presidente ci sono “sostanziali opportunità per riforme che riducano i costi, aumentino l’accesso, rafforzino la qualità e migliorino la salute della popolazione statunitense”. Il ritardo dei trattamenti per le persone non assicurate comporta non solo una minore efficacia dei trattamenti, ma anche un incremento dei costi. Cosa significa? Significa che la società del benessere è ormai volta al culmine. Significa che la gente sta male e non ha gli strumenti opportuni per essere curata.
Al di là dei vari pareri su “Joker”, credo che per apprezzare questo personaggio occorra aver sperimentato almeno una volta nella vita un evento traumatico, bisogna averlo vissuto o aver compreso davvero che cosa sia la compassione. L’empatia. Il film affronta il tema della fragilità umana, la ricerca disperata di tangere un qualcosa che almeno assomigli alla comprensione, alla gentilezza. Il dolore straziante di non averla percepita, di non essere stati accolti come “persone”. Siamo tutti clown. Il disagio che si nasconde nella psiche umana è quasi armonioso, è disforico, crudo, disinteressato e controverso. Joker non è altro che un personaggio buono e malato, un novello clown di città, che, quasi come Frankenstein, si riscatta da un passato di sopraffazione, emarginazione e bullismo. Lo fa nel peggiore dei modi. Uccidendo, torturando, ma chi siamo noi per giudicarlo? Cerca un riscatto che non avrà mai, se non da solo, un riscatto negato da una società di poveri derelitti impauriti e incattiviti dal Capitalismo.

Joker siamo un po’ tutti noi: il suo odio e la sua frustrazione fanno capolinea in ognuno di noi ogni qual volta un nostro sogno, una nostra speranza viene infranta. Calpestata. È una voce spigolosa che andrebbe ascoltata, un ritratto spaventoso di 2 ore di film che andrebbe analizzato ancor più specificatamente nel suo disagio mentale. Joker prova angoscia, disagio, si isola socialmente e si deprime. Non è una giornata di merda che ti porta a sviluppare un certo tipo di disturbo. La verità è che Joker soffre di un disturbo bipolare in comorbidità con un disturbo schizofrenico della personalità; la sua vita è stata costellata da cicatrici, incrinature, tagli netti, ancor ben visibili in superficie. Piccoli segni che lo continuano a tormentare. Abbiamo l’abitudine di odiare, di nascondere problemi sotto il tappeto: Joker non fa altro che alzare tutta quella polvere e svelare cosa si nasconde dietro quel shopenariano velo di Maya induista.
“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti.”
Il point break possiamo sperimentarlo tutti, diceva un noto criminologo, specialmente se una situazione si ripete in modo ripetitivo e costante.
La sensazione che si prova uscendo dal cinema è allarmante, reclama impotenza, si fonde con la confusione frenetica del via-vai quotidiano: al di là degli omicidi, del sangue, non solo non vorresti far male a nessuno, ma vorresti essere più gentile, vorresti cercare disperatamente delle risposte a fronte di problematiche mentali che sono fuori dal nostro controllo. E certamente, a Gotham City, fuori dal controllo delle istituzioni. Personalmente, dopo al termine del film il mio umore si è rilevato sofferente: Joker nel suo diario scrive che il vero problema della malattia mentale è che la gente vorrebbe che tu ti comportassi come se non l’avessi. Niente di più vero. Solo sperimentando il dolore si può cambiare: è l’ironia del trauma, un senso di colpa, una linea sottile che vede da un lato il risentimento di voler condannare una società che ti ha abbandonato e che ti ha precluso un’esistenza normale, decente e dall’altro la dannazione. Abbiamo l’abitudine di odiare, di nascondere problemi sotto il tappeto: Joker non fa altro che alzare tutta quella polvere e svelare cosa si nasconde dietro quel schopenariano velo di Maya induista.

“Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo.” Forse Joker non ha, in fin dei conti, tutti i torti: spesso guardiamo alla nostra vita come se fosse una tragedia. Forse è necessario comportarsi come se fossimo attori – non pirandelliani magari – di una commedia.
La verità è che siamo tutti clown, chi più, chi meno, ragazzi .
Indossa una faccia felice, Clown.

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