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UNA DANZA DELLE DITA

  • Immagine del redattore: Roberta Mazza
    Roberta Mazza
  • 15 mag 2020
  • Tempo di lettura: 1 min

Abbiamo tutti nel petto un violino e abbiamo perduto l’archetto per suonarlo. Alcuni lo ritrovano nei libri, altri nell’incendio di un tramonto, altri ancora lo hanno perso per strada e lo stanno ancora cercando.

Ezio Basso lo ha trovato in un pianoforte, e quando poggiava le sue mani su quella tastiera infinita, trovava milioni di gradazioni, sfumature, possibilità e risposte. Diceva che il tempo è un pozzo nero, e la magia che hanno in mano i musicisti è quella di stare nel tempo, di dilatare il tempo. Di rubare il tempo.

Ingiustamente, il suo tempo gli è stato rubato, ma quando lo abbiamo visto a Sanremo nel 2016, ci siamo limitati ad ascoltare, felici, perché la sua disabilità non impediva in alcun modo di commuovere anche il più insensibile degli uomini con la sua dolcezza eterea e perfezione irraggiungibile. Non voleva il successo, non lo ostentava, ma mostrava una cortesia e una forza quasi innata a fronte di una malattia degenerativa che però lo rendeva uguale a tutti noi, forse migliore. Quando suonava o dirigeva, le sue dita diventavano d’acciaio, i polpastrelli di velluto, l’aria vibrante e ogni cosa intorno perdeva di colore, perché ogni pupilla si dilatava di fronte a quella voglia di vivere così forte, così tangibile.

Avevi ragione: la malattia non è stata la tua identità, era più una questione estetica. Sei stato un talento, un’artista, ma anche un generale, e i tuoi soldati erano i tasti. E tu li hai comandati come nessuno ha mai fatto. Che la terra ti sia lieve, Ezio.




 
 
 

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Euphoria

Roberta Mazza. 

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